Chi non conosce i Pixies nel 2020? Difficile trovare qualcuno che alzi la mano, adesso. Lo dimostrano i tour mondiali post-reunion che ormai da anni portano in giro a raccogliere i frutti di una fama arrivata molto dopo la pubblicazione dei loro più grandi dischi. Si dice che i Velvet Underground abbiano venduto pochi dischi nei Sixties, ma che ciascuno di coloro che li ha comprati abbia poi fondato una band. Ecco, qualcosa del genere, su più piccola scala, si potrebbe dire dei Pixies: durante gli anni Ottanta il mondo non era ancora pronto per loro, ma qualcosa di grosso stava per succedere, di lì a poco. E come tutti ormai sappiamo, anche i Nirvana ce lo avrebbero testimoniato.

Il contesto storico-musicale

Paradossalmente, gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della musica di plastica, pieni zeppi di tastieroni e effetti improbabili, capigliature dalle orribili cotonature e vestiti kitsch, un pugno in un occhio ma anche nelle orecchie. Eppure, come contraltare a questa vulgata comune, mai come negli anni Ottanta una costellazione di band incredibili, originali e vitalissime, hanno dato una spallata simbolica a questo mood imperante, riuscendo a imporsi in un immaginario ben più importante di quello del successo immediato da heavy-rotation su MTV. I Pixies sono una delle punte di diamante di questo sottoterra culturale, talmente importanti che per chi è arrivato dopo ascoltare la loro musica era semplicemente la cosa più naturale del mondo. La loro lezione era così entrata nel dna di tutti quelli cresciuti musicalmente negli anni 90 che era come se li conoscessero già: parlavano la loro stessa lingua.

Ingenuamente fuori dagli schemi

Surfer Rosa non è il loro debutto in senso stretto, visto che viene subito dopo l’Ep “C’mon Pilgrim” ma rappresenta la loro entrata sulla scena del rock underground più deflagrante e fulminante. Affidato dalla 4AD alle cure preziose dell’allora Big Black Steve Albini, il disco segnerà profondamente l’estetica di quello scorcio finale di decennio, stabilendo nuove coordinate nel magma delle indies che spopolavano nelle college radio. I Pixies però rappresentavano qualcosa di assolutamente sui generis e ingenuamente fuori dagli schemi. Se le altre band dell’underground americano in qualche modo potevano venire affiliate in filoni comuni di appartenenza, la band di Black Francis e Kim Deal appariva come una cosa a sè, imprevedibile e senza eguali.

Forgiata nel garage rock più grezzo di derivazione Stooges, aveva fatta propria la lezione del folk punk alla Violent Femmes, crudo ma condito da melodie dannatamente pop, senza diventare lezioso, lambendo la strada in qualche modo segnata dagli Husker Du.

La dinamica del suono “quiet and loud”

Nessuno aveva mai cantato in quel modo sgraziato e urlante, ma allo stesso tempo armonioso come facevano insieme Black Francis e Kim Deal: con una naturalezza che pochi altri avranno, un cantato perfettamente incastonato nelle particolari dinamiche del loro suono, fatto di impennate devastanti e improvvise su quiete melodie per ora solo accennate – sarà infatti con il successivo Doolittle a svolgersi più compiutamente questa tendenza. In questo costante sali-scendi emotivo fra noise e pop si forgerà il loro marchio di fabbrica indelebile, caratterizzato ulteriormente dai testi surreali ed estremi di Black Francis. L’immaginario violento e carnale a cui attingono è quasi disturbante, ma viene attutito dalla vena ironica che si percepisce per tutto il disco, anche in quelle famose registrazioni di dialoghi rubati da Albini che fanno capolino in diverse tracce, a totale insaputa della band. La fotografia così scattata è quella di una spontaneità assoluta, perfetta immagine di un sound senza fronzoli e diretto: a suggellarne l’autenticità fin da subito viene piazzata una dirompente “Bone Machine” uno degli open alt-rock più istantanei, che incarna perfettamente il leggendario approccio live-in-the-room di Albini.

Acceni di melodie fra scossoni punk

Nell’incastro Deal-Francis, non giocano di certo un ruolo secondario gli altri due attori in gioco. Come dimostra fin da subito l’apertura, il fulcro del disco si svolge proprio sulla potenza secca della batteria di Lovering, un suono massiccio che caratterizzerà tutto il lavoro. Come del resto sarebbe impossibile immaginare i Pixies senza il tocco nevrotico della chitarra di Joey Santiago, vere e proprie scosse di elettricità senza preavviso, altra peculiarità immortale del loro sound.

Surfer Rosa passerà alla storia per essere il disco di “Where is My Mind?”, il classico assoluto della band di Boston, assurto agli allori di tanti grazie al film di David Fincher: uno dei pezzi più melodici di questi 35 minuti assieme a “Gigantic”, l’unica canzone interamente cantata da Kim Deal. In realtà si tratta di fenomenali eccezioni all’atmosfera generale del disco, in cui prevalgono poderosi scossoni punk rispetto alle melodie (Break My Body/Broken Face), divertissment grotteschi (Oh My Golly!/Vamos/Tony’s Theme) mantra sinistri e striscianti (Cactus/River Euphrates) e ritmi forsennati e ferali (Something Against You). Il tutto condito dall’immancabile tocco esotico in salsa Spanglish che qui lascia il segno anche nel titolo del disco.

Anche se (almeno per chi scrive) sarà il successivo Doolittle il vero capolavoro della band di Boston, Surfer Rosa rimane un album di debutto portentoso e spiazzante: se per chi era cresciuto col grunge tornare a ritroso alle radici di quel sound era un percorso naturale, al contrario l’apparire sulla scena rock di un disco come Surfer Rosa contribuì a cambiare il corso naturale delle cose, così come erano state percepite fino a quel momento. Pochi se ne accorsero, allora, ma ormai la storia aveva preso tutto un altro verso.