Il 20 giugno 1966 usciva Blonde on Blonde, il settimo album in studio di Bob Dylan pubblicato dalla Columbia. È considerato l’ultimo della trilogia elettrica dopo “Bringing it All Back Home” e “Highway 61 Revisited”, con cui l’autore di Duluth compì una sua personale rivoluzione musicale che finì per avere un impatto epocale sull’intera storia della popular music.

Il primo disco doppio della storia

Fra le varie caratteristiche che ne fanno un punto di svolta epocale c’è sicuramente il fatto che si tratta del primo disco doppio della storia del rock, precedendo di pochi giorni la pubblicazione di “Freak Out” di Zappa. Circostanza, questa, che denota un’importante tendenza già in atto ma della quale Dylan era uno dei grandi protagonisti: lo spostamento dell’attenzione dal singolo al long playing , che elevava così il rock a una vera e propria forma d’arte.

Testi visionari

A questa caratteristica prettamente formale ne corrispondeva una sostanziale: un lavoro sui testi sempre più “poetico” e visionario. Dylan aveva ormai smesso i panni del “menestrello folk” abbandonando le tematiche sociali e di protesta, per tuffarsi in un universo completamente diverso. In un’intervista del periodo, dichiarò di voler far sua l’idea di “caos” auspicando che anche il caos potesse essere suo amico. Iniziò a lavorare, dunque, cercando di raggiungere una forma canzone sempre più sfuggente, deragliata, incurante di regole e dettami esterni a se stesso. Il disco non a caso si apre con un pezzo come “Rainy Day Women #12 e #35”, un vero e proprio delirio di strumenti, tanto da sembrare una canzone degna dell’ Esercito della Salvezza.

Quel “Everybody must gets stoned” rappresenta un degno incipit, come a voler dire che si era volutamente fuori controllo. In realtà, Dylan aveva ben in mente dove volesse andare a parare: stava inseguendo quasi ossessivamente un suono che aveva in testa e che non riusciva a perfezionare su disco, “that thin wild mercury sound”. Ciò di cui aveva bisogno erano le condizioni ideali per afferrarlo, ma soprattutto dei musicisti e un produttore che lo aiutassero a incanalare quel caos.

La strada verso Nashville

La Highway 61 è una strada che porta dal Minnesota al Sud degli States. Il destino ha voluto che proprio sul finire delle session di Highway 61 Revisited iniziò la strada che portò Dylan fino agli studi di Nashville, dove perfezionò finalmente Blonde On Blonde e afferrò quel suono che aveva in testa. Ci volle un nuovo produttore, Bob Johnston, comparso proprio durante le registrazioni di “Like a Rolling Stone”, il quale fin da subito aveva in mente quella strada, inizialmente scartata, che fu poi decisiva. Ma ci vollero anche i fischi che Dylan prendeva quasi sistematicamente ad ogni esibizione di quel tour, quando passava dal set acustico a quello elettrico. A dividersi quelle bordate c’era per la prima volta con lui sul palco Robbie Robertson (con gli Hawks, ovvero la futura Band), chitarrista strepitoso e personaggio chiave per la realizzazione di Blonde On Blonde. A questo contribuirono in maniera sostanziosa anche i Nashville Cats, musicisti di sessione della città del country, reclutati proprio grazie a Bob Johnston.

Blonde on Blonde prende forma

Dopo le infruttuose session di New York, nello studio A di Nashville, Dylan riuscì in pochi giorni a dare forma a Blonde On Blonde, scrivendo spesso i pezzi poco prima di registrarli, anche fino a tarda notte, con i musicisti che rimanevano in attesa. Con una cura maniacale, cambi continui nei testi, nei ritmi, negli arrangiamenti, mise insieme una delle più belle collezioni di canzoni mai accorpate in un unico album. Senza soffermarci sull’intera tracklist per la quale servirebbe un saggio a parte, sostanzialmente Blonde On Blonde è un disco che parla di donne, di amori obliqui e di desideri salvifici, di triangoli amorosi ai quali Dylan non riusciva a sottrarsi. Con riferimenti a volte espliciti, ma per lo più trasfigurati, a quelle donne che lo avevano incrociato (Edie Sedwig, Joan Baez e la moglie Sara).

Conclusioni

Un autentico capolavoro destinato a cambiare il corso della storia del rock, e forse del mondo stesso, mettendo insieme la musica più rivoluzionaria del tempo con dei testi finalmente degni di essere indagati. Perchè Dylan, come sempre, non ci dice niente di netto: ci porta su un sentiero in cui chiederci qualcosa. La foto in copertina è sfocata: rimarremo sempre con quel dubbio che Daryl Sanders (nel suo saggio dedicato proprio a Blonde On Blonde) solleva, tramite le parole di Robyn Hitchcock: “Che cosa volevi dire? Vogliamo ancora saperlo, cinquant’anni dopo: che cosa volevi dire veramente?”